Cinereview: The Founder [2016, John Lee Hancock]

Published on by Umberto Bieco

The Founder ci mostra la nascita dell'impero di McDonald's da un semplice chiosco gestito da due fratelli, fondato sull'innovazione tecnica e la velocità nonché su valori familistici e qualitativi – fino a diventare uno squalo capitalistico guidato dall'ingorda megalomania di un commerciante ossessionato dal successo, Ray Kroc interpretato da Michael Keaton, che ne comprende le potenzialità e decide di diffonderlo in tutta la nazione, a costo di tradire e distruggere i sani principi di partenza che avevano ispirato gli umili e rigorosi fratelli.

 

Se quindi nella prima parte il film sembra la solita celebrazione mitologica del successo in America, basato su perserveranza, dedizione, determinazione e duro lavoro, nonché da magici momenti di ispirazione commerciale – ovvero uno spot di McDonald's e della sua genuinità – la frizione con la visione originaria dei fratelli crea una crepa che si allarga progressivamente in una voragine di bramosia che inghiotte quella stessa visione, la mastica, la sminuzza, ne succhia e assorbe le capacità di profitto e la risputa fuori, o la espelle – macerata, distrutta.

 

Kroc concepisce la catena di McDonald's come un ulteriore simbolo americano, associandolo alla bandiera a stelle e strisce, e alle croci delle chiese – bandiere e croci che sventolano e svettano in ogni cittadina – così come dovranno fare i suoi archi dorati: l'America e il capitalismo cannibale diventano quindi un'unica realtà, sovrapponibile – McDonald's è l'America, e l'America è McDonald's: la corruzione del profitto sui principi.

 

Così come, volendo utilizzare Michael Keaton come tramite, la croce è la copertura di crimini in Spotlight, film premio Oscar 2016 che illustra la scoperta giornalistica degli abusi sui bambini nelle chiese americane. Così come, nel film della propaganda reale, la bandiera è di volta in volta tronfio e retorico simbolo di libertà e democrazia dietro cui si espleta un espansionismo imperialistico imperniato sul bullismo internazionale a base attribuzioni di colpe mai provate e conseguenti bombardamenti.

 

Quel che mostra il film è in realtà il soppiantare della piccola impresa da parte dell'accentramento del capitale, che tutto fagocita e divora gonfiandosi in entità sempre più grandi – fino al formarsi di mastodonti planetari che superano i confini, le multinazionali: in questa crescita qualsiasi ostacolo si pari davanti al profitto, che sia pratico o morale, viene ignorato, attaccato, distrutto, truffato o semplicemente comprato.

 

Ciò detto, il solito impareggiabile professionismo hollywoodiano, macchina da guerra dell'intrattenimento, rende il film ritmato, spiritoso e guardabile – ma si distingue per il suo scrostare l'arco dorato della parabola del successo, rendendo chiaro che il più famoso degli hamburger non è nient'altro che un boccone amaro [oltre che poco sano]. Suggerisco di sputarlo.

E di integrare la visione con Fast Food Nation di Richard Linklater.

Published on Film

To be informed of the latest articles, subscribe:
Comment on this post